Viaggio nell’Estremo Occidente cinese*

© Silvia Sartori - Xinjiang, Ottobre 2005
Reportage dallo Xinjiang, là dove la Cina fà i conti con i propri musulmani. E il loro petrolio.

Lascio Shanghai all'alba di una domenica, diretta a Kashgar (Kashi, in cinese). Per arrivarci, è innanzi tutto necessario volare fino ad Urumqi, il capoluogo della Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang. Il volo dura cinque ore abbondanti, la metà circa di un volo normale diretto in Italia. Già, perchè lo Xinjiang è la regione più ad ovest della Cina, una sorta di raccordo tra l'Asia Centrale e l'Estremo Oriente. All'imbarco, mi riconosco unica caucasica in mezzo ad una folla di cinesi che, curiosi quanto me, si accingono ad esplorare questa misteriosa regione, teatro anche dell'esotico viaggio di Marco Polo nel XIII secolo.

Nel primo pomeriggio sbarco ad Urumqi, con l'impressione di essere arrivata in un avamposto del mondo arabo. Il paesaggio è del tutto diverso dal panorama urbano, tipico della Cina della costa orientale: nessun palazzone, nessuna superstrada, ancor più incredibilmente nessuna traccia di pesante traffico cittadino né di folle di abitanti, a piedi o in bicicletta. La città si presenta calma, rilassata, distesa sulla sua piana semidesertica, dipinta di tinte ocra. La grafia arabo-turca si accosta a quella cinese nelle segnaletiche pubbliche, volti caucasici caratterizzano lo spaccato umano di questo curioso pezzo di Cina in cui la macchina del tempo sembra esser stata messa in stand-by. Abituata alla frenesia imperversante nei centri nevralgici della "Cina sviluppata", osservo stupita questo diverso ritmo di una vita che è, pur sempre, anch'essa parte della Cina odierna.

Trascorro qualche ora nei dintorni della città, fra distese desertiche in cui pascolano, radi, alcuni cammelli, qualche cavallo nero corvino e alcuni greggi di capre. L'orizzonte è cinto dalla maestosa catena della Tianshan (la Montagna del Cielo) che non lascia intravedere tracce di vita. Qua e là, qualche grande tenda, finemente ricamata, in cui abitano le popolazioni rurali della zona.

In tutto questo, stento sempre più a credere di essere davvero ancora in Cina.
La sensazione continua quando, qualche ora più tardi, sono nuovamente all'aeroporto. Questa volta a circondarmi sono uomini dell'Asia Centrale, avvolti in lunghi abiti scuri e con un'aria grave, che mi scrutano con sguardo indagatore. Non è il solito stupore, incantato e genuino, con cui abitualmente i cinesi fissano i laowai (come sono definiti gli stranieri in Cina); ora mi sento diversa, non in quanto straniera, ma in quanto donna.

Un altro mosaico cinese


A notte fonda arrivo alfine a Kashgar, la più occidentale delle città cinesi.

Qui, come in pochi altri punti della regione, i cinesi di etnia han non costituiscono la maggioranza della popolazione. C'è da chiedersi per quanto ancora sarà così, vista la continua e rafforzata politica di assimilazione, voluta da Pechino nei confronti di questa sua "provincia sovversiva". La regione dello Xinjiang, che conta 18 milioni di abitanti circa, ospita ben 47 gruppi etnici. Storicamente, la maggioranza della popolazione era costituita da Uiguri, gruppo di etnia turca che professa il credo musulmano sunnita. Con essi convivono, tra gli altri, consistenti gruppi di Kirghisi, Tagiki e Uzbeki. Se, però, nel 1953 gli Uiguri costituivano tre quarti della popolazione locale e gli han non erano che un'esigua minoranza (inferiore al 10 per cento), dagli inizi degli anni Novanta la proporzione è cambiata notevolmente: gli Uiguri sono circa il 40 per cento della popolazione della Regione, mentre gli han sono divenuti il gruppo nettamente maggioritario. Si tratta di cinesi che il governo di Pechino invia nei "Nuovi Territori" (come si traduce il termine Xinjiang) per accelerare l'assimilazione di quelle etnie minoritarie che potenzialmente minacciano lo status quo su cui regge la delicata stabilità interna cinese. Gli Uiguri, e i loro concittadini di origine centro-asiatica, preoccupano infatti il governo per la loro simpatia nei confronti dei fratelli arabi e mussulmani.

Dopo diverse vicissitudini storiche, in cui forme di indipendenza del Turkestan Orientale si susseguirono a invasioni da parte delle dinastie cinesi, lo Xinjiang venne definitivamente annesso alla Cina nel 1884, per divenirne poi Regione Autonoma nel 1955. La popolazione locale, che non si riconosce nella cultura cinese né tanto meno nella sua politica, non ha mai cessato di rivendicare forme di maggiore autonomia, se non persino di indipendenza, anche attraverso episodi di violenza che il governo di Pechino considera "azioni separatiste" e "terroristiche".
Sostenuti dai fratelli d'oltre confine e, nel caso di alcune frange estremiste, da organizzazioni quali quelle dei talebani, gli Uiguri irredentisti continuano a costituire una scomoda spina sul fianco per il Dragone asiatico che, soprattutto in questa sua fase di rinascita, non accetta compromessi su questioni etniche e secessioniste, per diverse ragioni.

Per prima cosa, la Cina non è affatto disposta a rinunciare alle ricchezze presenti nel "Nuovo Territorio". Lo Xinjiang, infatti, oltre ad essere la più vasta regione della Cina, di cui ricopre un sesto del territorio nazionale, ne possiede il 75 % dei minerali e il 33% del carbone. Ciò che più conta per il gigante asiatico, affamato di energia, lo Xinjiang attualmente offre il 30 per cento del petrolio nazionale cinese on-shore, ma è previsto che molto presto la produzione locale aumenterà, al punto da superare quella dello Heilongjiang e fare così della Regione Uigura la prima fonte nazionale di petrolio. Non solo, ma nella disperata ricerca cinese di fonti energetiche alternative, i deserti dello Xinjiang rappresentano un'allettante piattaforma per lo sfruttamento e il potenziamento dell'energia eolica.
In secondo luogo, la Cina del nuovo millennio non può permettersi fenomeni di instabilità interna e teme forme di terrorismo di matrice islamica. Soprattutto all'indomani degli attentati dell'11 Settembre, il governo è deciso a tenere strettamente sotto controllo la comunità musulmana e le sue rivendicazioni, tanto autonomiste e, ancor più, indipendentiste. Gravi disordini sociali sono una delle minacce più serie che potrebbero pesantemente compromettere quella corsa sfrenata con cui Pechino, già da una decade, sta inseguendo il traguardo del successo e della modernizzazione, per quanto "con caratteristiche cinesi". Per questo, Pechino ha approfittato della campagna internazionale contro il terrorismo, all’indomani dell’11 Settembre, per poter ulteriormente stringere la morsa contro la minoranza musulmana. Agenzie internazionali lamentano la crescente violazione dei diritti umani nella regione, mentre il governo accusa i gruppi etnici locali di complicità col terrorismo internazionale. Dal febbraio 2002, sulla scia della “campagna ideologica contro i separatisti etnici nazionalisti”, è cresciuto il numero di Uiguri accusati di “azioni terroristiche”, sono aumentati arresti e persecuzioni politiche e si è intensificata la politica di repressione religiosa e assimilazione culturale (l’UNICEF ha di recente inserito l’uiguro tra le 3000 lingue mondiali a rischio di estinzione).

A fare pendant con la questione musulmana si inserisce, poi, il fattore, non certo marginale, della posizione strategica dello Xinjiang. Il territorio, che dista dalla capitale cinese quasi quanto dall'Europa centro-orientale, non solo occupa una posizione centrale nel continente asiatico, ma confina con Mongolia, Kazakistan, Kirghizstan, Uzbekistan, Tadgikistan, Afghanistan, Pakistan e India. Internamente, condivide anche parte dei suoi confini con la regione tibetana, a cui è accomunato anche dall'irrequietezza politica e culturale, benchè in forme diverse. Svolge, quindi, un ruolo fondamentale nel dialogo e nella rinnovata cooperazione con stati dell'Asia Centrale e dell'Asia Meridionale. La posta in gioco, in entrambi gli scacchieri, è tra quelle che più stanno a cuore a Pechino: la corsa alle risorse energetiche dell'Asia Centrale, la coesione politica locale per allentare l'influenza statunitense nell'area, la storica cooperazione col Pakistan, il timido dialogo e la crescente competizione con l'India. Per consolidare e garantire la sua presenza nell'area, la Cina sta potenziando notevolmente le infrastrutture e le vie di comunicazione dello Xinjiang, così da ripristinarne l'importanza di cui godeva ai tempi della Via della Seta e farne nuovamente un corridoio privilegiato dei trasporti asiatici. Indicativo è il fatto, ad esempio, che la Repubblica Popolare Cinese e il Kazakistan stiano progettando l'istituzione di una zona di libero scambio vicino a Korgas e alle città lungo il confine, per favorire le esportazioni verso l'Europa e l'Asia Centrale. Per consolidare anche la via dei trasporti su mare, Pechino ha offerto di finanziare una fetta consistente dell'investimento di 1.16 miliardi di dollari per la costruzione di un porto nel villaggio pakistano di Gwadar. Questo rafforzerà l'accesso dello Xinjiang al Pakistan, obiettivo per cui Pechino ha peraltro investito 200 milioni di dollari nella costruzione di una rete viaria che colleghi Gwadar a Karachi.

A spiegare, poi, la mano pesante con cui il governo cinese continua a trattare la "questione Xinjiang", vi è il solito, temuto, effetto domino. Sul piatto della delicata politica interna cinese, infatti, giacciono ancora, aperte, le questioni di Taiwan, "provincia ribelle" e di quelle regioni, Tibet e Mongolia Interna in testa, che reclamano la propria indipendenza e non accettano la presunta "prevaricazione" cinese. Cedere con gli Uiguri vorrebbe dire scatenare una pericolosissima ondata di ribellioni interne che minerebbero velocemente la compattezza e la stabilità dell'odierno impero cinese. Pechino è ben consapevole di questo rischio e non fa mistero di come la stabilità interna sia, attualmente, il requisito più importante per consentire alla Cina di emanciparsi e recuperare l'agognato titolo di superpotenza mondiale.


"Sono cinese"


Camminando per le strade di Kasghar, osservo la tradizionale vita urbana di questo affascinantissimo grande bazar, famoso per i suoi tessuti, tappeti e coltelli. Nulla, qui, lascia pensare alla Cina orientale, la Cina moderna e che si sta occidentalizzando. Molte delle donne che incrocio per strada indossano pesanti veli scuri che ne coprono completamente il viso. I bambini, che giocano lungo la via, non ci capiscono quando parliamo loro in cinese e a stento sanno dirci qualche parola nella "lingua nazionale". La popolazione locale, infatti, parla e scrive uiguro. Certo, il cinese rimane la lingua ufficiale ma, almeno a Kashgar, si riesce a comunicare meglio con un limitato inglese che ricorrendo al mandarino. E' un po’ come la questione del tempo: benché lo Xinjiang sia a qualche meridiano di distanza da Pechino, la Cina ha deciso di omogeneizzare tutto il suo immenso territorio adottando lo stesso fuso orario in ogni suo angolo. E così succede che, a Kashgar, si esca a mattinata inoltrata per trovare ancora un cielo buio e un sole che timidamente sorge. La vita qui si accende e la città si anima quando i cinesi di Pechino stanno oramai pranzando. Ed è curioso, poi, concordare appuntamenti con la gente del luogo. Io uso il Beijing shijian (l'orario di Pechino) ma questo sembra mettere in difficoltà gli abitanti del luogo che si fermano un attimo a pensare, fanno due calcoli, traducono la mia indicazione nello Xinjiang shijian, così alla fine ci capiamo. In tutto questo, la collega cinese, che mi accompagna, rimane allibita, quasi risentita, verso questi suoi stessi connazionali che non parlano la sua lingua e non si esprimono con le sue coordinate. Quando non riesco a comunicare, lei interviene automaticamente col suo cinese da madrelingua ma, buffamente per me, il risultato è lo stesso: loro non capiscono me, col mio cinese elementare, come non capiscono lei, cinese han. Stesso problema con i tassisti: indico loro la mia destinazione, su di una piantina che riporta le indicazioni sia in inglese che in cinese, ma entrambe sono incomprensibili all'autista.

Un orafo ci racconta che lui, ventiduenne, ha imparato il cinese, così come l'inglese, da uno dei suoi dieci fratelli che è insegnante di cinese e di inglese. Sta imparando un po’ di hindi grazie ai film di Bollywood che la televisione trasmette continuamente, la stessa televisione che trasmette programmi americani, cinesi, russi ma non uiguri. Il suo sogno? Riuscire a risparmiare abbastanza da poter poi andare in Pakistan o, magari, in Arabia Saudita. Gli Stati Uniti, la meta a cui agognano folle di cinesi delle metropoli, non gli interessano: lui desidera ricongiungersi ai fratelli arabi. Gli chiediamo allora se si senta veramente cinese, lui che ha gli occhi verdi, la carnagione chiara e non riesce a comunicare in mandarino. Ci pensa qualche secondo, si guarda attorno, allarmato e sospettoso, e risponde "certo, io sono cinese", con una voce e uno sguardo che tradiscono la sua vera opinione. "Bin Laden, ne hai sentito parlare?", continuiamo. Dapprima finge di non aver sentito, con aria distratta dice di non sapere chi sia, poi si corregge e dice di averne sentito parlare ma di non sapere cosa faccia esattamente e dove si trovi. La sua bocca accenna ad un sorriso ironico, al pensiero di quel Bin Laden che potrebbe nascondersi proprio a qualche centinaia di kilometri da lì.

All'ora concordata, torno dall'artigiano a cui avevo commissionato un bracciale. Nella sua stanzetta, il tempo è scandito da un orologio che batte l'ora dello Xinjiang. Di fianco a lui ventiseienne, una moglie giovanissima e bella che avevo incontrato qualche ora prima. Quando ritorno al negozio, la donna si affretta a coprirsi il viso col velo, alla vista di un amico che ora mi accompagna.
A qualche passo dal vicolo del negozio, intanto, continua a troneggiare imperiosa una delle più imponenti statue di Mao che la Cina annoveri.

* Originale del reportage pubblicato su East n.8, Milano, Baldini Castoldi Ed.