Giappone, dove passato e futuro convivono nel presente*

© Silvia Sartori - Tokyo, Maggio 2005.
Hamenari e il fratello Takenari stavano pescando sul corso del fiume Sumidagawa, quando all’amo si infilzò una piccola statuetta dorata di Konnan, il Buddha della Misericordia. I due la portarono al loro maestro, Naji-no-Nakamoto che dapprima la conservò in un piccolo altare domestico, per poi farci costruire, nei dintorni, un tempio vero e proprio.
Era l’anno 682 e così la leggenda traccia le origini del famoso tempio Senso-ji ad Asakusa, una delle miriadi di cittadine che compongono la costellazione della città di Tokyo.
Con l’inizio dello shogunato Tokugawa, nel diciassettesimo secolo, la capitale del Giappone fu trasferita a Edo (l’attuale Tokyo), e con questo iniziò l’epoca d’oro di Asakusa. Quello che era poco più di un piccolo villaggio di periferia divenne il ricettacolo del mondo culturale più variegato e innovativo. Artisti di strada, musicisti, acrobati, venditori ambulanti affollavano le vie del quartiere, mentre case di tè e di sake si moltiplicavano, ospitando i ricchi signori di città che qui venivano per divertirsi e fare acquisti smodati. Nel 1841, poi, Asakusa accolse i teatri kabuki, stile teatrale popolare che racconta con linguaggio colorito vicende storiche, d’amore e d’avventura ed era ritenuta una forma d’arte dissoluta nella capitale.
Quando il Giappone dovette porre fine al suo secolare isolazionismo, nel 1868, Asakusa fu nuovamente la prima ad assorbire i primi segni di cambiamento esterno: qui vennero aperti i primi studi fotografici, i primi centri commerciali, il primo cinematografo, le prime sale da ballo e di cabaret, nonché il primo bar, tuttora esistente.

Per certi versi la storia di Asakusa incarna l’anima del Giappone moderno, l’anima di un Paese dove antico e nuovo, ancestrale e futuristico convivono quotidianamente, senza per questo sentirsi a disagio l’uno accanto all’altro. È una convivenza difficile da capire per chi viene dall’esterno e cerca di decifrare una società che, malgrado il forte processo di modernizzazione, continua a costituire un universo a sé, senza eguali. All’apparenza molto occidentalizzato, ma nella sostanza intrinsecamente diverso e antico.

Arrivata a Tokyo, vado all’ufficio delle ferrovie per convalidare il mio abbonamento settimanale. L’addetta, gentilissima ed efficientissima, ci impiega qualche secondo per sbrigare la pratica e marca la data d’inizio di validità del pass: 28 aprile 18. Diciotto? Già, diciottesimo anno dell’era Heisei, ovvero dell’epoca dell’attuale imperatore Akihito.
Sali in metro e ti trovi circondata da tanti figuri in blu, grigio e nero. Ognuno siede silenzioso al suo posto, ognuno con gli auricolari alle orecchie: chi si lascia vincere dal sonno e crolla il capo, chi nervosamente controlla lo schermo di uno dei suoi cellulari, chi legge, assorto, un libricino rivestito di carta gialla. Di fianco a loro, gruppetti di studentesse in uniforme. Loro un po’ chiacchierano, ma sempre premurandosi di non dar fastidio e appartate in un angolo. E tu sei lì, diversa, che li osservi. Mentre nessuno di loro sembra accorgersi che tu ci sei, nessuno di loro ti getta uno sguardo di curiosità e di interesse. O, perlomeno, sembrano essere indifferenti alla tua presenza. Poi, però, ti vedono combattere con la piantina della metro e ti si avvicinano, chiedendoti se ti serve aiuto. Il loro inglese non è dei migliori, spesso è proprio elementare, ma cercano comunque di assisterti. Qualche mezzo inchino del viso, il consueto etto d’esordio, qualche suono gutturale che ti fa capire che stanno riflettendo. Ma alla fine la risposta di cui avevi bisogno arriva. Magari non da quello che ti aveva avvicinato, ma da qualcun altro che lui, a sua volta, ha contattato per esserti più d’aiuto.
Rimani stupita e rallegrata da tutta questa cortesia e continui per la tua strada. Cammini per minuti e minuti per passare da una linea all’altra della metropolitana, una maglia che conta almeno dodici reti. Anche lì, ognuno è al suo posto. Su di un lato la fila di quanti camminano in una direzione; sul lato opposto, ordinati, quelli in direzione contraria. Guardano avanti diritto, al massimo sussurrano qualche parola e, di nuovo, non ti badano. Sali sul vagone successivo e ti passa davanti, sicura del fatto suo, una bimbetta di non più di sei anni. Nella sua impeccabile uniforme scolastica, con tanto di cappellino blu e una rigidissima cartella blu scuro alle spalle, cammina decisa verso il suo posto a sedere. Da sola, torna a casa da scuola avventurandosi senza nessuna difficoltà nel labirintico groviglio della metro della capitale. Questo sembra essere assolutamente normale, e tu sei l’unica a rimanere stupita, un po’ perplessa.
Disinvolte intorno a te, intanto, donne e ragazze alle prese col trucco. Davanti a specchi e specchietti, si ritoccano il viso: cipria rosata sulle guance, linea marrone delle sopracciglia, matita sugli occhi e un ultimo tocco ai capelli. Non ne trovi una leggermente scombinata o scomposta, tutte sembrano in posa per un grande evento. Con altrettanta cura sono vestite, eleganti e distinte. Firmatissime, soprattutto. Louis Vitton, Gucci, Yves Saint Laurent, Prada stanno alle giapponesi (e anche ai giapponesi!) come Benetton o Sisley alle italiane. Tant’è che, quando la recessione nipponica aveva raggiunto uno dei suoi momenti più cupi tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, c’era chi parlava di una conseguente “Gucci depression”.

Ora le cose stanno andando meglio e pare finalmente che il Giappone si stia lasciando alle spalle l’ombra della decennale recessione. È ancora presto per dare responsi definitivi, ma le politiche riformistiche, messe in moto dal premier Koizumi, avrebbero rivitalizzato l’economia interna, puntando sull’iniziativa privata che ha ridato vigore ai consumi e alle esportazioni verso l’Asia. La privatizzazione delle autostrade prima (ottobre 2005) e dei servizi postali poi (operativa da ottobre 2007) stanno alleggerendo in modo sostanzioso il fardello che grava sullo Stato (i soli dipendenti postali costituiscono il 30% dell’intero corpo dei dipendenti pubblici giapponesi!). Nel 2002, lo Special Measure Act for Urban Revitalization ha creato 6400 nuove aree residenziali, calmierando così il mercato immobiliare che si avvicinava ad un’altra pericolosa bolla. Nello stesso tempo è stata avviata una politica di deregulation a livello locale, tesa a promuovere la creazione di zone speciali.
A fare da pendant alle manovre riformistiche, poi, vi è il tentativo di drastico risanamento dei conti pubblici. Koizumi intende ridurre del 10% la spesa pubblica, sostanzialmente aumentando la pressione fiscale nel biennio 2006-2007 e i costi dei servizi medici a carico dei contribuenti. Col valore record del 20,4% di popolazione sopra i 65 anni, il problema dell’invecchiamento costituisce, infatti, una preoccupante spina nel fianco per la pubblica amministrazione giapponese. Ad aggravare ancora più lo scenario, l’annuale censimento demografico ha di recente dichiarato che il numero di bambini è in calo per il venticinquesimo anno consecutivo. Ad aprile, la popolazione sotto i 14 anni costituiva solamente il 13,7 % del totale della nazione, raggiungendo valori inferiori addirittura a quelli dell’Italia (14,2 %) e di Spagna e Germania (14,5 %).
La nuova linea politica ha comportato anche un rivoluzionario cambiamento nel mercato del lavoro. Lo storico impiego a tempo indeterminato con lauti benefits e bonus sta diventando sempre meno una certezza del sistema. Contratti a tempo determinato o part-time si moltiplicano, con remunerazioni salariali proporzionalmente molto più basse. Questo consente alle imprese un più ampio margine di manovra nelle loro politiche di assunzione e al contempo ha ridotto il tasso di disoccupazione, ora assestato attorno ad un più rassicurante 4,3%.

Mamoko, 22 anni, ha da poco terminato il diploma universitario. Da qualche mese lavora presso un noto centro linguistico di Tokyo. E’ il suo primo impiego e non si lamenta dell’opportunità presentatale, ma già pensa a cambiare lavoro. Attualmente lavora sei giorni alla settimana per uno stipendio mensile di 120.000 yen (840 euro circa). Il solo affitto le costa ogni mese 60.000 yen, benché viva in un appartamentino di meno di 50 metri quadrati, che condivide con un coinquilino. Considerando le spese per bollette e trasporti, ogni mese le rimangono circa tre, quattromila yen per campare. Di risparmi neanche parlarne: già fatica ad arrivare a fine mese.
Il suo, del resto, non sembra essere un caso isolato in un Paese in cui i risparmi si sono ridotti di due terzi rispetto agli anni Ottanta.

E qui si ripresenta l’enigma.
Il Paese cambia, ma la società per molti versi sembra indifferente, impermeabile, a qualsivoglia cambiamento. Si risparmia di meno e si spende di più, il lavoro diventa più precario e le ditte arrivano persino a multare i dipendenti che fanno gli straordinari. Già, perché si è cominciato a rendersi conto che l’impiegato stacanovista, che si sacrifica per il lavoro, rischia di compromettere la sua produttività, quindi meglio incoraggiarlo ad attenersi agli orari ufficiali di lavoro.
Eppure, intanto, la maggior parte delle donne continuano ad abbandonare la carriera dopo il matrimonio. Al lavoro continuano a subire pressioni proprio in quanto donne, al punto che la stessa Yuriko Koike, Ministro dell’Ambiente, ha attribuito il suo recente ricovero ospedaliero alle pressioni provocatele dall’ambiente di lavoro. “Una donna deve lavorare dieci volte più sodo di un uomo per dimostrare che vale”, ha dichiarato. Akiko, giovane neolaureata, al suo primo giorno di lavoro ha ricevuto una giornata intera di formazione su come porgere i bigliettini da visita, come rispondere al telefono e come inchinarsi, a seconda dell’interlocutore con cui interagisce. Questo benché lavori per una ditta americana.
Un mondo nuovo e un mondo antico che si incontrano senza scontrarsi. E tu ti chiedi come faccia questo Paese a rimanere così integralmente se stesso pur diventando così diverso, così moderno e, chissà, forse occidentalizzato. Sì, perché quando sbarchi in Giappone ti aspetti di trovarti dinanzi al culmine del progresso, all’apogeo della modernizzazione, all’avamposto di quanto di sofisticato l’Occidente sia riuscito a produrre. Paradossalmente, nell’arcipelago asiatico ti aspetti di trovare proprio l’anteprima di quanto l’Occidente sarà o, perlomeno, potrebbe diventare.
Invece, poi, cammini e ti guardi attorno, visiti e parli con la gente e scopri che la società e la forma mentis rimangono diverse. Neanche asiatiche, ma esclusivamente giapponesi. L’Occidente rimane necessariamente un termine di confronto obbligato, ma non per questo un modello da clonare in toto.

Constatazione che mi dà un certo sollievo, confesso.
Sì, perché, vivendo in Cina, l’impressione invece era che l’Asia stesse progressivamente estinguendosi, senza che gli asiatici stessi se ne diano troppo cruccio. Osservo l’orgoglio con cui i cinesi americanizzano il loro stile di vita e le loro città, abbattono templi e giardini e ci costruiscono l’ennesimo centro commerciale o palazzone che di cinese proprio non ha nulla.
Quello cinese, casomai, è un altro paradosso: l’antipatia crescente nei confronti degli Stati Uniti, potenza ritenuta “egemonica ed arrogante”, convive con l’imitazione smodata e l’assorbimento acritico di quanto è di origine americana. Dopo tutto, però, questo si spiega con la naturale inclinazione cinese ad ammirare ‘il Potente’, chiunque esso sia.
Vale un po’ lo stesso principio nei rapporti sino-giapponesi, che attualmente stanno attraversando uno dei loro minimi storici. Ad alimentare i forti dissapori, culminati un anno fa in gravi dimostrazioni di piazza, sarebbero questioni storiche ancora aperte, contenziosi territoriali, discordanti interpretazioni storiche. Più pragmaticamente, ragioni di Realpolitik, inevitabili in epoca di impetuosa rinascita cinese e di concorrenza regionale, se non globale. In primis, la sete energetica dei due Paesi, acuita, nel caso della Cina, dalle dimensioni del Paese, nel caso del Giappone, dalla pressoché totale mancanza di fonti energetiche sul territorio nazionale.
Si aggiunga, poi, una buona dose di sapiente manipolazione politica da entrambi i lati e i toni del non dialogo si esasperano facilmente. Guardo soprattutto ai cinesi, che nella loro natura lasciano più facilmente trapelare le loro opinioni (per quanto poi vadano decodificate). Non perdono occasione per confessare l’ostilità per il vicino insulare, magari senza saperne esattamente la ragione. Penso al mio agente immobiliare che, quando ha saputo del mio prossimo viaggio in Giappone, ha dichiarato secco: “A noi cinesi non piacciono i giapponesi”. “Perchè?”, gli chiedo. Ribatte, dogmatico: “Non lo so, ma non ci piacciono”.
Intanto, e qui ricompare il paradosso, i cinesi sono sostenitori accaniti di musica giapponese, affollano i ristoranti di sushi e teriyaki e vanno matti per ogni tipo di gadget che provenga dal Sol Levante. Sempre e ancora, il fascino del nuovo e del potente.

Il Giappone, invece, nel corso della sua ripresa post-bellica sembra essere rimasto immune dalle tendenze omologanti. Cammini per la città e ti imbatti ancora in donne che indossano il kimono, intravedi geishe che intrattengono uomini d’affari, scopri decine di negozi di artigianato antico, scorgi case in stili architettonici tradizionali, fotografi giardini e fiori in vecchi stili artistici. Agli incroci delle strade, in cima ad una collina, sotto le frasche di un boschetto, trovi tempietti, shinto e buddisti. Non sono lì decrepiti, scalfiti dal passare del tempo o abbandonati all’incuria. Sono curati in ogni loro dettaglio, con fiori freschi, tendaggi colorati puliti e statuette di pietra, ricoperte con panni rosa e rossi. Senti che il passato vive ancora, che c’è qualcuno dietro che lo perpetua e ci crede ancora sinceramente.
Kiyoko, nota giornalista musicale, mi racconta che le ragazze amano ancora portare lo yukata, abito tradizionale estivo simile ad un kimono. Non lo fanno per folklore o per ritualità, ma semplicemente perché a loro piace. E sono le stesse ragazzine che incontri per la città, vestite all’ultimissima moda, truccate impeccabilmente, sempre a giocherellare nervosamente col loro telefonino ricoperto di gadget pure un po’ kitsch.
Un’impronta tradizionale rimane, dunque. Ma a che prezzo?
Guardi queste folle che si muovono e si comportano irreprensibilmente. Capisci da ogni loro azione che agiscono con la consapevolezza di essere membri di un gruppo, di una comunità a cui devono continuamente rendere conto, talvolta in forme silenziose, impercettibili, quasi occulte. E allora mi vengono in mente le parole di Terzani il quale, dopo essere stato espulso dalla Cina nel 1984 ed essersi trasferito in Giappone, concludeva che questi fosse l’unico Paese in cui il comunismo abbia mai davvero funzionato.
Un’estremizzazione, forse, ma sostanzialmente questa è la sensazione che permea da una società così irreggimentata e ubbidiente, che si sente sicura e protetta proprio dall’adesione alla complicatissima rete di convenzioni che la governano. A scapito, in parte, dell’indipendenza individuale, come lamenta anche Kiyoko, che si vede circondata da giovani generazioni prive di mentalità e spirito indipendenti. Fino al dilagare del fenomeno otaku, i giovani fanatici dell’industria dell’animation e di videogiochi, che finiscono per rinchiudersi in casa per dedicarsi esclusivamente a questa loro ossessione. Un fenomeno in continua crescita, una vera questione sociale che ora sta assumendo anche dimensioni internazionali, con l’aumento di otaku stranieri che arrivano per ricongiungersi “in patria”.

Al tempio di Soji-ji, nei pressi di Yokohama, incontro il reverendo Kimura. Trentacinquenne, da circa vent’anni è monaco della setta Soto del Buddismo Zen. Chiedo a lui che cosa pensi delle nuove, giovani generazioni giapponesi. “Non sono felici”, mi risponde. Vivono schiave di una routine monotona votata allo studio o al lavoro, con un’impronta egoista. La religione? La conoscono, ma quello che a loro interessa adesso è una vita piacevole.
Lui, invece, si sente felice. Avvolto nel suo lungo abito nero, simbolo di moderazione e modestia, vive da circa dieci anni in questo che è, per importanza, il secondo tempio della setta in Giappone. Ogni mattina si sveglia alle 3:30, alle 4 inizia i suoi esercizi zen, dalle 5 alle 7 canta i sutra e poi fa colazione. Terminato il pasto, assieme agli altri monaci pulisce la stanza e i pavimenti, per poi riprendere a cantare i sutra. Stesso ordine per il pranzo. La cena è servita alle 5, alle 7 lo attendono gli esercizi zen serali, seguiti dalla pulizia “del corpo e della mente”. Una vita regolarmente cadenzata, che ha “scelto per destino”. Si dedica attivamente alla formazione dei giovani monaci, attualmente centocinquanta nel monastero. Otto anni fa, si è recato in visita a San Francisco. Gli chiedo che impressione ne abbia avuto. “Ci ho trovato la stessa serietà che c’è in Giappone”, mi spiega. “Il posto era molto bello, i monaci very nice”.
E la Cina, invece? Nella sua risposta aleggia un profondo rispetto per quella Cina che per lui è innanzi tutto la “missionaria” del buddismo in Giappone. Vorrebbe andarci, un giorno, per studiare. Ma il suo sogno prima di morire è di poter andare in India, la vera culla del Buddha Shakamuni.
Al termine del nostro incontro, richiude il dizionarietto elettronico che aveva assistito il suo inglese traballante. E senza abbandonare la serenità che ha sempre dipinta in volto, con fare sorridente si ferma un attimo a decantare le lodi di questi frutti della tecnologia.
Un’altra piccola miniatura di come l’antico e il moderno si sposino senza nessuna incongruenza.

Mi lascio alle spalle questo spicchio di mondo sacro e antico e torno a Yokohama, zona Minato Mirai. Qui si ripresenta, invece, un altro spicchio del mondo futurista. Grandi hotel lussuosi, una gigantesca ruota panoramica, una finta e, direi, poco realistica Burano ricostruita nel lungo fiume, dipingono i tratti di quella che è stata concepita come “modello di città del futuro”. Tutto torna a farsi grande, sfavillante, nuovo e, con questo, insapore e artificiale. E tu ti senti sul set di un film, comparsa involontaria in una sorta di paese provetta.
Più ti avvicini, più credi di poterlo conoscere e meno lo capisci.
E ricordi Oscar Wilde, che sosteneva che “in realtà il Giappone è un’invenzione pura. Non esiste un tale Paese, non esiste un tale popolo… Il popolo giapponese altro non è che un modello di stile, una squisita fantasia dell’arte”.
* Reportage pubblicato su East n.10, Baldini Castoldi ed., Milano