Realtà asiatiche a confronto: esiste un’altra via? *

© Silvia Sartori - incrocio pedonale a Singapore, Luglio 2006. 
Forse perché arrivavo dalla Cina. Forse perché ormai l’ombra della Cina si insinua in ogni angolo d’Asia e ti sembra che ovunque ti sposti, sul continente, debba in qualche modo riflettersi quel tipo di vita e di società che stanno fermentando nella “Cina del miracolo”. O forse perché tre quarti circa della popolazione della città-stato è di origine cinese.
Arrivi a Singapore e ti aspetti di trovare non molto di più di un “dragone” in miniatura. In versione tropicale e dal sapore del Sud-Est asiatico.
Invece scopri che è molto di più. E poi non così tanto cinese.
Paese efficientissimo innanzi tutto. Te ne accorgi non appena atterri e ti avvii nel labirinto del grande aeroporto. Ovunque, segnaletica in quattro lingue: inglese, cinese mandarino, malay e tamil. Agli angoli che precedono il controllo del passaporto, internet point e telefoni pubblici gratuiti. Attorno, personale indiano, malesiano, cinese – tutti indigeni si intende – che sembrano essere lì solo per aspettare di rispondere alle tue domande. Tutti con un sorriso dipinto in viso che lì per lì rimani perplesso da tanta sincera disponibilità.
Tutto sembra fatto per accoglierti e condurti alla scoperta di un “Paese modello”.
Così diverso dalla sensazione che ti avvolge in Cina, dove ogni tua azione è, di fatto, una conquista, un traguardo che, consapevolmente o meno, ti devi guadagnare. Salire in metropolitana, è una conquista contro le folle che si buttano dentro al vagone senza porsi il problema di quanti, magari, devono scendere. Acquistare il biglietto, è una conquista contro tutti quelli che non concepiscono l’idea di una fila e ti spingono da ogni lato. Spostarsi per le strade - a piedi, in aiuto o in bici che sia - è una conquista contro la creatività sfrenata di autisti, motociclisti, ciclisti o pedoni. Fare acquisti, è spesso una conquista nei confronti di venditori che, semplicemente perché ti vedono straniero, raddoppiano o triplicano i prezzi. Comunicare, è una conquista in un Paese in cui l’inglese stenta ancora ad attecchire.
Invece a Singapore il tuo ventaglio cinese di problemi quotidiani si dissolve. Non te ne poni assolutamente più il cruccio. Perchè quei problemi diventano d’un tratto inconcepibili. Alla fermata della metro, la fila di quanti salgono si ferma, prima, ad aspettare che i passeggeri scendano. Nelle stazioni, sportelli e servizi automatizzati ad ogni piè sospinto rendono quasi impossibile l’esistenza di code. Per le strade, un sistema rigoroso di norme (e multe!), combinato ad un’osservanza puntuale e religiosa delle stesse, fuga quasi ogni rischio di incidente. Ai negozi, nuovamente il personale dal sorriso radioso che, dandoti lo scontrino, ti augura una buona giornata. Chiunque incontri per le strade, cinese malesiano indiano, giovane o vecchio, povero o benestante, conversa spontaneo e disinvolto in un inglese fluente.
Una perfezione quasi impeccabile conquistata in 40 anni circa di indipendenza duranti i quali la piccola ma potente città-Stato è diventata una delle quattro tigri asiatiche e uno dei principali centri finanziari e tecnologici dell’Asia e del mondo. Ti ci avventuri con la sensazione di essere quasi in un Paese ovattato, una sorta di Svizzera asiatica animata da un esemplare pluralismo razziale pacifico. Little India, Chinatown, Kampong Glam e Geylang Serai, microcosmi etnici che riescono a perpetrare le proprie tradizioni convivendo l’uno di fianco all’altro. Tutto si concentra, mescola e prende forma in una città che sembra avere più l’aria di una tranquilla cittadina di provincia che di una capitale. Eppure la esplori e ti intrattieni con la sua gente e ti pare quasi di potervi trovare la storia del mondo in miniatura: il dominio delle rotte marine dei commerci mondiali, la colonizzazione e la lotta per l’indipendenza in passato, il confluire delle grandi religioni dell’umanità, il cammino verso una convivenza razziale armoniosa, lo sviluppo economico “miracoloso” nella seconda metà del Novecento, la scomoda vicinanza del grande fratello cinese, la carenza di risorse naturali.
Pare che, nel suo piccolo, Singapore abbia vissuto tutto e per tutto abbia trovato una ricetta. E, se ancora non l’ha trovata, continua a cercarla, a modo suo e tenendo sempre in vista la propria identità asiatica. Per dimostrare che l’Asia può ancora dare il suo contributo al mondo, senza doversi per forza accontentare di ingoiare le medicine che le ha prescritto l’Occidente.


Qualche settimana più tardi sbarco a Bangkok.
Mi erano rimasti addosso quei colori di sud-asiatico di Singapore, la garbatezza della sua gente, la composita e pacifica convivenza di gruppi etnici, la vegetazione esuberante e rigogliosa ad ogni angolo, il cielo limpido azzurro di cui in Cina sembra spesso di aver perso memoria.
Il primo ad accoglierti al tuo arrivo in Tailandia è il re. Mentre sei in coda per il controllo del passaporto, gli schermi colorati e luminosi, al di sopra della immancabile “linea gialla”, allegramente inneggiano Long live the King e We love our King. Lungo le strade, ai semafori, sui tetti degli edifici, alle fermate dei battelli, è tutto un grande ritratto di Sua Altezza, a fianco della moglie o immortalato in scene diverse del suo lavoro. Fiori e altarini circondano in pompa magna ogni sua effige. Un’impronta di sacra regalità sembra aleggiare in ogni angolo della città. Questa sua presenza, silenziosa ma costante, dà un primo tocco di magia fiabesca all’atmosfera di quest’altro Paese. O di un Paese altro.
Incastonato dentro ad un cielo azzurrissimo, macchiato qua e là da qualche paffuta nuvoletta bianchissima, con squarci di verde acceso ai suoi piedi. Fanno capolino, tutt’attorno, tetti, pinnacoli e guglie di templi e palazzi reali, ricoperti di colori scintillanti: arancio, oro, verde, blu. Tutto risalta quasi fluorescente da sembrare irreale e tu ti senti precipitata dentro scorci architettonici e artistici che oramai davi per scomparsi, estinti dall’implacabile macchina della modernizzazione.
Questo, invece, è proprio il panorama quotidiano con cui si confronta, e conforta, la vita della capitale tailandese. Conta più di otto milioni di abitanti eppure non ti dà affatto l’impressione di una megalopoli asiatica da paese in via di sviluppo. All’orizzonte quasi nessun palazzone o grattacielo a bucare lo scenario, l’orizzonte sembra anzi disteso e ampio. Nessuna sensazione di affollamento architettonico, di giungle di edifici che nascono uno sopra l’altro, schiacciandosi per conquistare il proprio spazio vitale. Certo, non manca la pennellata di disordine urbano, con antichi palazzi artistici ormai soffocati tra piccole catapecchie, di incerta origine, e costruzioni moderne. Il traffico, quello, poi, toglie ogni possibile dubbio: la confusione di mezzi d’ogni tipo, in caotica circolazione, e l’inquinamento, che emanano, rimangono tra i contrassegni più tipici di queste brulicanti metropoli asiatiche. Ritorno col pensiero alla Cina e guardo, divertita e preoccupata al contempo, a questa parata di vita in movimento. Preoccupata, perché respiri il groviglio di fumi e odori e ti rendi conto, un po’ scettica, di quanta strada ci sia ancora da fare per rendere questi spicchi di mondo più environment-sensitive. Divertita, perché poche altre cose ti danno la misura dell’invettiva e della creatività moderna degli asiatici come sa paradossalmente fare il traffico. Passino i modelli di auto che non si sono mai visti altrove ma l’arcobaleno di “risciò moderni” e la “guida fai da te” ti costringono a fare i conti immediatamente con un universo che la globalizzazione e la modernizzazione (per una volta) faticano a scalfire. Motorini di ogni forma e colore stanno alla Tailandia come le biciclette alla Cina. Persino i marciapiedi sono “a misura di motorino” con, alle estremità, degli scivoli per facilitare la salita o la discesa. A contendersi, poi, il ruolo di re della strada, gli inconfondibili “tuk-tuk”, evoluzione moderna e motorizzata dell’antico risciò. Disinvolti, si insinuano, agili e determinati, tra auto e camioncini. Sorpassano a sinistra e a destra (che differenza fa?!). Rivendicano lo status di mezzo non motorizzato quando risulta più conveniente avvalersi delle piste ciclabili o delle corsie pedonali, ma quando il rombo dei motori chiama, sono schierati in prima fila tra taxi e auto di tutto rispetto.
Tra i vicoli di palazzi e templi, lungo le strade e i mercati, si alternano, sereni, monaci buddisti avvolti di arancio acceso. Con quella loro aria serafica e lo sguardo catartico, sembrano darti la misura di un Paese che rimane intrinsecamente diverso e incatenato a problemi storici di sviluppo ma che dopo tutto sta bene così. Persino loro, quest’altra cartina tornasole di un’Asia che starebbe cambiando, mi sembrano diversi dai loro omologhi cinesi. A Bangkok, ti vedono e ti sorridono, si lasciano avvicinare o ti vengono incontro loro stessi e, benché con un inglese incerto, si fermano volentieri a conversare. In Cina, dove sono già più difficili da incontrare, abitualmente, procedono per la propria strada, quasi distaccati dal mondo circostante. Sono difficili da avvicinare e raramente parlano un po’ di inglese. Anche comunicandovi in cinese, ti si rivolgono con aria incerta: dubbiosa, diffidente o semplicemente incuriosita. Il frutto, forse, di un’identità più difficile da acquisire e, per questo, da mantenere più tenacemente. Quasi una conquista da custodire gelosamente.
La stessa vita brulicante la ritrovi poi negli immensi mercati, quelli cittadini come pure, ancor più caratteristici, quelli galleggianti su labirintici canali d’acqua. Dalla capitale, li raggiungi dopo qualche ora al volante, passando tra la periferia urbana che poi lascia spazio a distese rurali. Ti sopraffa ancora questo cielo turchese tinteggiato di bianco e, ai lati, distese immense di palme da cocco, banani e tipica vegetazione tropicale. Qui il traffico è leggero e scorrevole e per un istante voli col pensiero in California o in Florida, con questi larghissimi stradoni e qualche auto o truck a farti compagnia di tanto in tanto. Approdi nel mondo dei canali e lì ti convinci che, sì, per fortuna, esistono e resistono ancora roccaforti d’Asia che “il villaggio globale” non ha ancora conquistato. La gente vive in dignitose palafitte al bordo dei canali, ognuna diversa dall’altra in qualche suo dettaglio, ed è lungo questi canali che si svolge tutta la loro vita. Lungo i canali coltivano i prodotti destinati alla vendita, a bordo di lunghe canoe vanno, con una guida snella e magistrale, a vendere frutta, verdura e souvenir, di canale in canale. Nelle stesse imbarcazioni cucinano, mangiano e “rincorrono” i turisti per fare affari. Verso mezzogiorno, a bordo delle loro canoe, ritornano a casa, lungo il canale si intende, per la loro pausa pranzo. Tu li segui e noti che, al tuo fianco, lungo quello stesso canale melmoso in cui nasce e cresce tutta la vita di questa comunità, fra le sue acque c’è chi si fa il bagno. Li guardi stupefatta e perplessa e loro ti rispondono con un sorriso felicissimo che dipana qualsiasi tua preoccupazione.
Al ritorno a Bangkok, è domenica pomeriggio. Alla ricerca di un piccolo ristorantino per pranzare, ti accorgi che tutto s’è fermato e si fa silenzioso. Che sensazione d’altri tempi! Quelle vecchie domeniche pomeriggio estive in città in cui le strade si svuotano, le imposte socchiuse lasciano intravedere qualche curioso sguardo sfuggente, un gatto si trascina pigro e qualche bambino si inventa un gioco con poco.
Per la prima volta mi rendo conto di come questa scena di vita non mi appartenga più da quando vivo in Cina, dove nulla mai si ferma, dove non c’è il tempo per fermarsi, quasi che la gente stessa non ne concepisse il bisogno. Nel Regno di Mezzo la “sindrome da sviluppo”, l’ancestrale rivincita storica, non concede soste e trascina tutti in un vortice frenetico che, impietoso, abbandona per strada chi non riesce a stare al passo.
E allora unisci tutti questi fotogrammi di tasselli d’Asia e ti chiedi dove stia davvero andando l’Asia. La locomotiva cinese, su un binario o sull’altro, attraversa le stazioni di ogni Paese limitrofo e già va oltre. Le piccole vecchie tigri, come Singapore, rimettono mano al proprio modello di crescita perché non si possono più permettere di fermarsi e godersi il “miracolo” raggiunto. La Tailandia, benché ancora alle prese con un pesante bagaglio di povertà, sembra concedersi il lusso di attardarsi un po’. E continuare a coccolare quella sua identità che è restia ad accordare troppo alla modernizzazione globale e trovarsi poi livellata sullo stesso stampo “degli altri”.
E tu ritorni allo stesso dilemma da cui eri partita: Asia antica e diversa (ma povera) o Asia moderna e del successo (ma ben poco asiatica)?

* Originale del reportage pubblicato su East n.11 Baldini Castoldi ed., Milano