Life in a bubble

“Palloncini di vetro”
© Silvia Sartori. Venezia, Agosto 2011 

Shanghai – Recentemente sono stata a cena con qualche amica e qualche “amica dell’amica”. Terminata la cena, decidemmo di andare a prendere un drink in un altro locale ma, oramai in taxi, ci rendemmo conto che nessuna di noi aveva l’indirizzo esatto del luogo. Al che, l’amica dell’amica che sedeva di fianco al tassista - una professoressa universitaria d’origini nordamericane, sulla quarantina abbondante, che vive a Shanghai da 4 o 5 anni - in totale disinvoltura e perfetto inglese, si rivolge al tassista chiedendogli: “Would you know where … is?”

Sono rimasta sconvolta. Basita.

Chiunque sia stato in Cina anche solo due ora sa benissimo che nessun tassista in Cina parla inglese (o non piu’ di cinque parole scontatissime).
Dopo due ore che sei qui neanche ti passa – o neanche dovrebbe passarti – per l’anticamera del cervello di provare a fare un discorso in inglese con un tassista. (Di fatto, sarebbe tanto utopico quanto pretendere di fare una conversazione in cinese fluente con l'italiano medio in Italia.)

La scena mi ha lasciata letteralmente sconvolta.
Cosa numero uno: a Shanghai esistono ancora stranieri che, a distanza di 4 o 5 anni, vivono ancora in un tale “universo parallelo” da non rendersi conto che atteggiamenti del genere sono completamente out of space?! Non e’ certo un mistero che ci siano gli “espatriati VIP” che vivono nei compound da Beverly Hills, con pacchetti salariali astronomici, benefits da capogiro e a distanza di anni non hanno un singolo amico cinese. Ma l’amica dell’amica in oggetto non era di questi. E’ indubbiamente una straniera che qui fa la bella vita, ma non di quelle che vivono nei ghetti di lusso della “Shanghai parallela”.
Cosa numero due: a Shanghai esistono ancora stranieri che, a distanza di 4 o 5 anni, frasi del genere ancora non le sanno dire in cinese?!

Certo, sono la prima a riconoscere che una delle attrattive del vivere qui, per noi stranieri, sia la “vita da bolla” che, consapevoli o meno, nolenti o volenti, tutti in una certa misura facciamo. Alcuni sono venuti qui per questo. Altri l’hanno scoperta una volta qui. Per entrambi, la vita da bolla è una delle ragioni per cui siamo ancora qui.
Sarebbe ipocrita dichiarare che viviamo “alla cinese” e come i cinesi. Io per prima non posso dire di farlo, senza per questo vivere da espatriata di lusso. Pero’ e’ anche giusto riconoscere che, dal non vivere come i cinesi al vivere da super star in Cina, ci sono miriadi di sfumature.

Io sono tra quelli che in Cina non sono venuti per quella “bella vita” che la bolla ti regala. Quella e’ una cosa che casomai ho scoperto una volta qui e a cui, non lo nego, mi sono certamente comodamente abituata (pur ritenendola, anche, un equo auto-compenso per tante faticacce che, su altri versanti, la vita cinese comporta, benche’ questo – lo so – non possa essere una scusa. Alla fine, di venire a vivere qui, l’ho scelto io. Nessuno mi ci ha obbligata con la pistola puntata contro.) In una certa misura mi ci sono adagiata anch’io, tenendo pero’ sempre a mente che cosi’ come seduce, la bolla – per sua natura fragile - si puo’ anche infrangere da un momento all’altro, e per sempre.
Ma al di la’ di questo, personalmente non capisco what’s the point of moving all the way to China, con tutte le complicazioni che questo comporta (perche’ vivere qui non e’ solo “bella vita”), per auto-illudersi di essere una super star. In quel caso, mi sarei cercata un Paese decisamente piu’ semplice e facile.

Come straniero, anzi, come alien (come sono definiti i ‘non cinesi’), si gode indubbiamente a priori di una corsia preferenziale. Perlomeno come alien bianchi (la musica si fa meno gioconda all’imbrunirsi del colore della pelle). Perlomeno fino a poco tempo fa.
Ora che citta’ come Shanghai e Pechino sono letteralmente invase da stranieri - molti dei quali approdati ultimamente piu’ per disperazione da crisi in Occidente che per presunta “passione per l’Oriente” - la musica sta, giustamente, cambiando anche per noi. Meno laissez-faire e piu’ rigidita’, e anche una piu’ palpabile insofferenza mista ad intolleranza nei confronti degli stranieri.

Con questo, la Cina diventa meno “Paese dei Balocchi” per gli stranieri. Anche qui: giustamente.
Paese dei Balocchi perche’ di fatto allo straniero (bianco) era perdonato quasi tutto. E perche’ lo straniero (bianco) era di default un VIP. Non importa quanti anni avesse, quali effettive capacita’ avesse, quali vere intenzioni avesse, lo straniero veniva accolto come fosse una sorta di “anima magnanima che si sacrificava e degnava la Cina della sua onorata presenza di Uomo Occidentale Bianco”. O almeno questo e’ quello che gli veniva fatto credere. Perche’ in realta’ lo straniero (bianco) era in primis una ghiotta mucca bianca da mungere (per poi imbrigliare alle spalle in “trattative e accordi alla cinese”).
Di fatto, allo Straniero-nel-Paese-dei-Balocchi era consentito lavorare con visti non esattamente in regola. Dallo Straniero-nel-Paese-dei-Balocchi non ci si aspettava che parlasse e capisse il cinese. Ai piedi dello Straniero-nel-Paese-dei-Balocchi cadevano sciami di donne cinesi. La Straniera-nel-Paese-dei-Balocchi veniva fermata per strada da uomini cinesi che la trovavano “identica a Biancaneve”. Lo Straniero-nel-Paese-dei-Balocchi poteva accedere in automatico alle corsie VIP. Lo Straniero-nel-Paese-dei-Balocchi poteva permettersi di boss around senza obiezioni. Per lo Straniero-nel-Paese-dei-Balocchi era normale ricevere ingaggi per presenziare a meeting tra cinesi con l’unica mansione di fingere di essere un rinomato architetto (o altro professionista) associato allo studio cinese di turno. E un’infinita’ di altre situazioni simili.
C’e’ poco da nascondersi dietro ad un dito: in un modo o nell’altro, nolenti o volenti, ne abbiamo tutti approfittato, almeno un po’.

Peccato che ora, giustamente, la Cina si sia stancata di fare da pista da circo. Rimane un Paese in via di sviluppo ma non per questo e’ (piu’) disposta a tenere le frontiere indiscriminatamente aperte, tanto meno ora che in Occidente la festa comincia a finire. Come dice un mio sagace amico, nel giro di pochi anni siamo passati “da espatriati ad immigrati in Cina”. Certo, rimane ancora da vedersi come evolvera’ questo nuovo assetto e di che tinte si tingera’.
Ora come ora, pero’, se vali e hai un effettivo valore aggiunto da contribuire al Paese, sei il benvenuto. Ma se la tua unica ragione per cercare lavoro in Cina e’ la disoccupazione in Occidente, se vieni qui solo per lasciarti alle spalle qualcosa (o qualcuno) e per reinventarti una vita senza troppi piani ne’ risorse, se arrivi credendo di fare – o, peggio ancora, di essere – un eroe per il semplice fatto che sei straniero e bianco e sei arrivato fin qua, beh, e’ meglio che ti eviti la fatica iniziale e punti direttamente agli altri Paesi-dei-Balocchi che sono rimasti in giro per il mondo. Se e’ per quello, non serve neanche che tu vada troppo distante dalla Cina.
Quanto al mandarino: se vuoi venire a vivere qui e non sei ne’ uno specialista ne’ un senior manager di qualcosa, beh, e’ meglio che cominci a studiarlo. Perche’ i tempi in cui un tassista ti capira’ – e rispondera’ – in inglese, sono ancora molto lontani all’orizzonte. Come sempre piu’ lontana, sospetto, si fara’ la disponibilita’ del cinese medio a scusare a priori lo straniero che qui vive e il cinese non si e’ mai sforzato di studiarlo.