La stagione degli addii
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Shanghai –Shanghai è una città di transito. Una città in cui la
gente va e viene in continuazione. C’e’ sempre chi parte, e chi arriva. Chi per
tre mesi, chi per sei mesi, chi per un paio d’anni, chi a tempo indeterminato. Soprattutto,
c’e’ chi arriva pensando di starci un paio di mesi, massimo un anno, e poi lo
ritrovi ancora qui a distanza di anni. C’e’ anche chi vuole andarsene ma non ci
riesce – ma questa è un’altra storia.
Pur essendo abituata a questo tratto tipico della citta’,
non ho mai dovuto dare tanti addii come quest’anno. In parte credo che questo
genere di cose segua delle ondate, e infatti per molti dei miei amici in
partenza si trattava della fine di un ciclo: chi 5, chi 10 anni in Cina. Poi di
recente mi e’ capitato di leggere la lettera d’addio di uno degli “stranieri illustri” di Cina: Mark Kitto,
fondatore degli storici “That’s Shanghai” e “That’s Beijing”, piu’ recentemente
noto per lo chalet che gestiva nelle
colline di Moganshan, ad un paio di ore da Shanghai. Anche lui - stabile in Cina da 16 anni, laureato
in cinese, sposato ad una cinese da cui ha avuto due figli - ha deciso di fare
le valige e dare l’addio alla Cina. E, stando a quanto scrive, senza troppi
dubbi ma con un’innegabile amarezza, mista a delusione.
Leggendo il suo commiato, m’è parso di ritrovare un fil rouge che oramai noto dietro a tante di queste dipartite. Un fil rouge a cui non sono estranea io
stessa. Un fil rouge che non e’
inedito in Cina ma che negli ultimi tempi sembra essersi esteso.
O semplicemente interessa un numero crescente delle
persone che conosco io.
Come in qualsiasi angolo di mondo, dalla Cina c’e’ gente
che parte per ragioni familiari. C’e’ chi parte perche’ viene richiamato in
patria – o trasferito altrove – dalla propria azienda. C’e’ chi se ne va per
ragioni ambientali e di salute: in astinenza dal verde, saturo di inquinamento,
a corto di cieli azzurri. C’è chi se ne va, stanco di storie a metà, alla
ricerca di relazioni “più normali”.
C’e’, poi, tutta una fetta di gente che dalla Cina se ne
va per ragioni rigorosamente China-specific.
Questa e’ la fetta a cui appartengono quanti, tra i miei di conoscenti, se ne
sono andati, o se ne stanno andando. (Forse, questa e’ la fetta a cui in parte gia’
appartenni io quando me ne andai nel 2007.)
E’ la fetta di gente che non ha piu’ le energie per
affrontare la Cina del day-by-day, e che
non trova piu’ la motivazione per affrontare una Cina che si e’ rivelata
profondamente diversa da quella che si aspettava di trovare.
La Cina d’oggi, infatti, e’ una grande locomotiva
economica, con tutto quello che questo comporta a livello professionale. Ma e’
anche una societa’ che deve continuamente fare i conti col macigno del
sovraffollamento demografico. Che, travolta in pochissimo tempo da enormi cambiamenti,
e’ alla ricerca di una nuova identita’, e sta cominciando solo ora a
raccogliere i brandelli di vestigia culturali e religiose che un passato ancora
non sufficientemente lontano ha risparmiato. E’ un Paese dove la mentalita’
delle persone non e’ cambiata alla stessa velocita’ dei mutamenti materiali del
Paese, provocando cosi’ un abisso che rimane ancora tutto da colmare ed e’
delicatissimo da gestire.
Per lo straniero che vive qui, quello che ha sudato mille
camicie per imparare il cinese, quello che ha cominciato con lavori modesti a
stipendi bassi anche in posti remoti della Cina, quello che ha provato (con un
successo dai giorni contati) a farsi solo tanti amici cinesi, quello che, davvero,
ce l’ha messa tutta per fare una full
immersion nella cultura cinese, arriva inesorabilmente un punto davanti al
quale si deve fermare. E decidere se sia disposto (e se abbia senso) ingoiare
un’ulteriore fatica, o se sia piu’ giusto mollare l’àncora – magari non definitivamente, magari solo per
qualche anno – per tornare a respirare aria di casa, e rifare un po’ di ordine
ed equilibrio mentale.
Il gomito a gomito quotidiano con le folle, le “buone
maniere alla cinese”, l’inquinamento ambientale e sonoro, la dilagante mancanza
di fiducia (in primis tra cinesi stessi), il materialismo imperversante, le
limitazioni culturali, artistiche e religiose, a tratti ti deprimono. Ti
portano a chiederti per quale ragione ti sei volutamente infilato dentro una
tale battaglia. Ti chiedi se ne abbia davvero senso.
Soprattutto quando spesso sono gli
stessi cinesi intorno a te a confidarti il loro sconforto (che poggia sempre su
solide basi di pragmatismo realista), la loro disillusione verso il sistema, la
mancanza di fiducia nel loro futuro imminente.
Soprattutto quando tocchi sempre piu’
con mano la quantita’ di pressione che ognuno di loro – o meglio, ognuno di
quelli non abbienti – deve portarsi sulle spalle ogni giorno, senza troppe
certezze sul futuro.
Soprattutto quando ti fermi a pensare,
associ un paio di scenari, e ti dipingi certe potenziali prospettive imminenti.
Soprattutto, poi, in un anno come
questo, in cui la tensione si e’ fatta particolarmente palpabile nell’aria:
dallo scandalo Bo Xilai al rallentamento della crescita economica.
In tutti coloro a cui ho dato l’addio quest’anno posso
dire con certezza di aver riscontrato, contemporaneamente, un grande sollievo
al pensiero di partire, così come, inevitabilmente, una certa misura di
amarezza e di delusione.
Dopo tutto si tratta di due face della stessa medaglia.
Delusione non verso se stessi ma verso questo Paese su
cui avevano riposto sacrifici, aspettative e sogni, ideali forse, e che sono
stati poi progressivamente, e in misura diversa, disattesi o infranti. E mi
riferisco ad amici sia stranieri che cinesi. Cinesi convinti di non aver piu’
nessuna prospettiva worthwhile in
patria. Cinesi che, dopo aver investito tutte le carte di cui disponessero, con
enormi sacrifici, dopo essersi messi in discussione e in gioco a 360 gradi,
hanno visto l’”auto-esilio” come l’unica opzione. Quasi una scelta d’obbligo,
doverosa.
Stando a quanto scrive, Mark Kitto mi sembra rientrare
appieno in questa categoria di stranieri in partenza. Se ne va perche’ non si
fida, e non ama piu’, questo Paese. O meglio, quello che questo Paese è
diventato. Se ne va per dare un’educazione diversa, piu’ critica e piu’ libera,
ai figli.
Dice che fondamentalmente se ne va perche’ “per lo
straniero, in Cina, non e’ possibile diventare cinese.”
Ecco, questo e’ un punto su cui non mi trova concorde.
Io non ho mai pensato di venire in Cina
‘per diventare cinese’. Come mai ho pensato che, vivendo qui, sarei potuta
‘diventare cinese’ (l’avrei voluto poi? A che pro?). Per quanto non mi sia mai
sentita una ‘fuori casta’ qui - a differenza di quanto mi succedeva invece regolarmente
in Giappone - credo che l’integrazione sociale tra culture cosi’ profondamente
diverse possa spingersi solo fino ad un certo punto. Questo lo accetto
serenamente e, nella misura in cui sono accettata e rispettata in quanto
straniera, non mi sento ferita perche’ qui non vengo considerata una cinese. (Mi
chiedo del resto anche quanto da noi, in Occidente, consentiamo davvero agli
stranieri di ‘diventare uno di noi’.)
Capisco pero’ l’amarezza profonda, la delusione, lo sconforto e la depressione che puo’ e sa provocare il corso che questa societa’ e questo Paese hanno abbracciato.
Capisco pero’ l’amarezza profonda, la delusione, lo sconforto e la depressione che puo’ e sa provocare il corso che questa societa’ e questo Paese hanno abbracciato.
Anche per me e’ un’altalena continua, tra difficolta’e
gratificazioni, tra delusioni ed esaltazioni, tra frustrazioni e opportunita’,
tra cinismo e ottimismo, tra fallimento e idealismo.
Io personalmente rimango convinta che, fintantoché il
bilancio dei due si chiude a favore delle gratificazioni, continui ad avere
senso (per me almeno) investire in difficolta’, in delusioni, in frustrazioni e
in periodiche depressioni. Pero’, nell’istante stesso in cui avessi la netta
sensazione che il quadro si sia ribaltato, allora sarà giunta anche per me l’ora
di lasciare questo Paese.
Perche’ una cosa è certa: non voglio “trascinarmi qui”. Voglio
andarmene prima che possano intervenire quell’insofferenza o quell’astio anti-Cina, che
inquinerebbero inevitabilmente tutto ciò che di positivo – e non si tratta di
poca cosa – questo Paese mi ha offerto,
malgrado tutto.