"Should I stay or should I go?"
"Doubt everything, believe nothing, find your own light"
© Silvia Sartori.
Particolare di un ristorante di Thimphu. Bhutan, Maggio
2012.
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Shanghai – Premetto: questo e’ uno scritto senza capo ne’ coda.
Sono da poco tornata dal Bhutan,
e in tanti mi hanno chiesto di raccontare com’e’ andata. Lo faro’, statene
certi.
Lo faro’ non appena riordino un po’ le idee e tutti questi pensieri che stanno
sorvolando la mia mente. Alcuni planano, altri sono di passaggio, altri di
ritorno. Altri lasciano giusto un’ombra e continuano il loro corso altrove.
Il fatto e’ che mi sento, come dire, un po’ “Lost in translation”.
Nell’accezione positiva dell’espressione.
Nelle ultime cinque settimane ci sono state la Mongolia Interna
(cinese), il Bhutan e la mia
adorata Bangkok.
Nelle prossime 3 ci saranno Mosca, Pechino e Singapore. E io, al momento, mi
sento come una sorta di baule da “isola del tesoro”, pieno di souvenir e
assaggi: facce, profumi, fiori, altari, incontri, storie. Ognuno di loro emana
un profumo distinto, ha un tratto distinto, parla una lingua distinta, adora un
dio distinto. E tutti mi emozionano, diversamente, ognuno a modo loro.
E allora per ora mi abbandono a questa mia partita di “twister geografico
mentale”, finche’ la realta’ non reclamera’ che torni troppo con i piedi per
terra.
Confesso che avevo paura di tornare in suolo cinese.
Dopo tre settimane tra i
deliziosi Bhutanesi, tutti sempre super educati (alla giapponese, ma
senza la rigidita’ e formalita’ che spesso hanno i nipponici), tutti (o quasi)
super fluent in English; dopo aver conosciuto in viaggio un gruppo di
altrettanto deliziosi Giapponesi (ma, si sa, questa non e’ una novita’ per me)
e dopo una pausa tra gli ever-smiling and always-friendly Tailandesi, ero seriamente
preoccupata di ritornare a fare i conti con il sovraffollamento urbano cinese, le “buone
maniere con caratteristiche cinesi”, lo stile di vita “lavoro-centrico”, la
giungla urbana di cemento, la natura (e la spiritualita’, e la cultura, e
l’arte) da cercare col lanternino.
E, nel frattempo, si sta(va) facendo avanti qualcosa di nuovo.
Perche’,
col ritorno dal Bhutan,
per me ha avuto inizio piu’ o meno
ufficialmente il mio ultimo “semestre contrattuale” in Cina: a gennaio
2013 mi scade il contratto, ergo da ora devo cominciare a pensare a what to do
next. Rimanere in Cina? Spostarmi altrove in Asia?
Fare ritorno in Occidente?
Benche' da sempre abbia la sensazione che in un certo senso da questo Paese io non me andro' mai, nelle ultime settimane s'e' fatto avanti questa specie di Grillo
Parlante che, li’ nascosto, continua a dirmi che, beh, Silvia, e’ davvero ora
che tu te ne vada di qui. E’ ora che torni nel mondo reale.
E io, convinta, a dargli ragione.
Invece poi e’ successo che il mio ritorno in quel di Shanghai e’ stato decisamente (e
inaspettatamente) piu’ da honeymoon che da “I need to get out of here ASAP”.
Anzi - e forse qui non dovrei stare a dirlo troppo ad alta voce - finora non c’e’ stato affatto
alcun “intoppo alla cinese”. Nessuno, zero assoluto.
Shanghai
m'ha subito accolta nel suo vortice di attivita’ sempre in azione, vecchie o
nuove che siano. Ho subito risentito e rivisto gente diversissima che ha
nell’aria, o per le mani, cose altrettanto diverse e interessanti. In vista del viaggio a Pechino,
dove vive, ho avuto un invito a cena da un amico tibetano che non rivedo da
anni, e che vuole cucinare per me. Sono ripartite subito le mie chiacchierate
con i tassisti, l’ultimo dei quali s’e’ super indignato al sapere che mia
madre, ormai prossima ai 60 anni, ancora non e’ in pensione (e non sa quando ci
andra’). Sono tornata dal mio lavasecco e ho scoperto che la signora e’
“improvvisamente” incinta di 8 mesi (e si' che erano al massimo due mesi che non
passavo), e io sono troppo contenta per loro. (Uno, perche’ sono proprio carini. E
due, perche’ loro un figlio ce l’hanno gia’, e di coppie urbane cinesi “normali”
(leggi: non stra sfacciatamente ricche o con agganci) che di figli ne abbiano
due, ce ne sono davvero davvero poche.) Cammino per strada e cinesi che non
conosco (o che, almeno, io credo di non conoscere), mi sorridono e
mi salutano. La mia
fruttivendola e’ stata tutta contenta di rivedermi, “che e’ da tanto che non vieni”.
Il mio parrucchiere pure, idem il mio vicino di casa. Mi sveglio la mattina e, ora che l'estate e' iniziata senza aver ancora raggiunto la soglia del fastidio (chi ha passato un'estate cinese sa benissimo che non lo dico per fare la preziosa), mi avvolge un profumo di aria calda e umida che mi riporta immediatamente alle colazioni in Sri Lanka, quando da un momento all'altro si sarebbe scatenato un temporale monsonico.
E poi, ieri, e’ pure successa una specie di piccolo miracolo.
Ormai era
un anno che constatavo che la cosa che piu’ mi manca dell’Italia, a distanza di
anni di vita cinese, sono le librerie. Ovvero, entrare in una libreria, anche
senza nessun obiettivo specifico, solo per sbriciare un po’ cosa c’e’ di nuovo
(che poi finisci sempre col trovare qualcosa di inaspettato che si riallaccia
irresistibilmente alla tua vita in quel preciso momento e non puo non essere tuo). Pero’ in Cina, ahime’, di libri stranieri
(cartacei - io sono della vecchia
scuola, quella che i libri ama comprarli ancora cartacei, tenerli in mano, "scarabocchiarli".
Niente “libri virtuali” per me) ce ne sono ben pochi. Tolti i classici (gia’ letti), rimane quasi
solo uno stuolo di americanate che per me in tutto rientrano tranne che in un
articolo per cui metterei piede in una libreria.
Invece, ieri, appunto, grazie agli amici di Vivi Shanghai, ho scovato
una mini biblioteca … in italiano! Poco piu’ di un centinaio di volumi ma
abbastanza per recuperare il piacere di andare a curiosare e fiutare tra libri
e libroni (cartacei). E comunque abbastanza per non uscire a mani vuote.
Insomma, sembra essersi (ri)creata una catena di piccoli dettagli quotidiani di vita
cinese che cominciano a farmi pensare che, sotto sotto, io forse a questo pezzo
di mondo sono molto piu’ attaccata di quanto non voglia credere e
convincermi.
Quindi adesso quel Grillo Parlante comincia a darmi quasi fastidio.
Domenica parlavo con un’amica da Londra che mi raccontava in lungo e in largo what makes that city so special (come pure difficile e faticosa). Ed era come se, nel nostro dialogo, ad un certo punto fosse entrata in scena una terza persona. Una vocina che dentro di me diceva tra se’ e se’: “Si, beh, certo. Bella, interessante, moderna, sviluppata, poco inquinata, Londra, e l’Europa.
Domenica parlavo con un’amica da Londra che mi raccontava in lungo e in largo what makes that city so special (come pure difficile e faticosa). Ed era come se, nel nostro dialogo, ad un certo punto fosse entrata in scena una terza persona. Una vocina che dentro di me diceva tra se’ e se’: “Si, beh, certo. Bella, interessante, moderna, sviluppata, poco inquinata, Londra, e l’Europa.
Ma alla fine l’idea di tornarci proprio non mi entusiasma.”
Certo, vorrei riavvicinarmi alla mia famiglia, vorrei (dovrei?) tornare un po’
piu’ in contatto con quel pezzo di mondo a cui, che lo voglia o meno, alla fine
appartengo.
Allo stesso tempo, pero’, l’idea di tornare a vivere in quel ‘mondo vero’ mi terrorizza. Se oggi mi spedissero a Francoforte, a Londra, a Parigi o a Bruxelles, la prospettiva, psicologicamente, mi spaventerebbe immensamente di piu’ che ricevere un incarico per Kabul o Yangon o Ulan Bator o qualsiasi altro posto in giro per l’Asia (per dove, anzi, di paura proprio non ne avrei).
Allo stesso tempo, pero’, l’idea di tornare a vivere in quel ‘mondo vero’ mi terrorizza. Se oggi mi spedissero a Francoforte, a Londra, a Parigi o a Bruxelles, la prospettiva, psicologicamente, mi spaventerebbe immensamente di piu’ che ricevere un incarico per Kabul o Yangon o Ulan Bator o qualsiasi altro posto in giro per l’Asia (per dove, anzi, di paura proprio non ne avrei).
Tutto mi sembra cosi’ difficile e immobile e fermo e costoso back in the West. Che
poi, lo so, non lo e' (sempre) in realta’ (anche se, certo, la crisi attuale certo non sembra
tifare per un mio ritorno in lande europee).
Eppure, passeggiavo per Bangkok e riflettevo su come io mi senta veramente a casa in giro per l’Asia e tra gli asiatici. Senza “se” e senza “ma”.
Eppure, passeggiavo per Bangkok e riflettevo su come io mi senta veramente a casa in giro per l’Asia e tra gli asiatici. Senza “se” e senza “ma”.
Che sia il Nepal, la
Corea o il Viet Nam, io in Oriente
mi sento, appunto, a casa.
Forse, davvero, hanno ragione quegli asiatici che sostengono che nella
mia vita passata io fossi stata asiatica.
E quindi, tornando a noi – l'avevo detto che sarebbe stato un post senza
capo ne’ coda – mi godo per ora questa fase di limbo. Che, conoscendo la vita
qui, potrebbe durare ancora 2 minuti come anche 20 giorni.
E, conoscendo me, potrebbe
ribaltarsi diametralmente tra qualche giorno, o domani. O forse mai.
In ogni caso, questa volta il limbo lo guardo davvero con molta curiosita’,
proprio come fossi io ad osservare me stessa.
Chissa’ come andra’ a finire.
Chissa' dove andro' a finire.
Chissa' dove andro' a finire.