累死

Shanghai – Countdown. Di fatto è quello che la stragrande maggioranza di noi stranieri qui a Shanghai sta facendo in questi giorni, in vista dell’imminente inizio, domenica prossima, delle vacanze di Capodanno cinese. Se per tanti di noi questa vacanza pubblica rappresenta un’altra occasione per uscire dalla Cina, per tantissimi è comunque una fuga da Shanghai. 

All’ennesimo laowai* che oggi mi diceva: “I can’t wait to leave”, ho pensato all’aspetto quasi preoccupante del fenomeno, visto che siamo tornati dall’Europa (o comunque dall’estero) a stento da due settimane. 
Due settimane che però già paiono mesi, per il vortice di cose going on e da fare che è ripartito, anzi, continuato, dall’istante stesso in cui abbiamo rimesso piede in suolo cinese.

Perché anche questo è vivere a Shanghai, e nelle megalopoli cinesi in genere: 24 ore di frenesia, 7 giorni su 7, 365 giorni all’anno, che ti trasmettono una energia continua, e difficilmente riscontrabile altrove. Ma che anche te ne chiedono, di energia, day after day.

Lo stile di vita no-stop, la diversità e difficoltà linguistica, le differenze culturali, in primis, rendono ogni cosa un mini traguardo quotidiano, che ce ne accorgiamo o meno. Una scommessa aperta, prima che con la Cina, con noi stessi. Una prova di forza e, ancora di più, di resistenza. Un equilibro che va reinventato quasi quotidianamente.

Tutto ciò ha indubbiamente il suo fascino e porta grandissime soddisfazioni, ma non senza prezzo.

Farsi largo tra milioni di persone sempre e ovunque (in Europa, davvero, non abbiamo idea di cosa voglia dire la “fatica da sovraffollamento umano”!), se débrouiller linguisticamente, decodificare culturalmente comportamenti, concetti ed eventi quotidiani, imparare a convivere con l’inquinamento (acustico in primis) e la mancanza di verde, stare al passo con eventi, inviti, opportunità è una sorta di “grande bazar dell’energia”. Exciting, thrilling (e pericolosamente addictive), almeno fino a quando l’”energia in entrata” è superiore a quella “in uscita”. 

Due settimane di ritorno alla vita cinese e già siamo “provati” e pronti a ripartire.

In aggiunta ai soliti fattori,  è anche per effetto del tempo umido o piovoso (ma almeno, quest’anno, non particolarmente freddo) che sta pennellando cielo, grattaceli e strade di solo grigio.
In parte, è anche a causa dei fastidiosi acciacchi e malanni di stagione che si son ripresentati senza troppo indugio (l’inverno di Shanghai non è certo una delle ragioni per cui possa venir voglia di venire a vivere qui).
Almeno per me, è anche effetto del carico di lavoro che, benchè in between two big holidays  - quelle natalizie occidentali e queste cinesi in arrivo - non è affatto rallentato, anzi (semplicemente, se un mese fa era dovuto alla fine dell’anno solare, ora è dovuto alla fine dell’anno lunare).
Aggiungiamoci la fibrillazione generale sul fronte trasporti per cui, con l’inizio dell’esodo di massa, è diventato impossibile trovare un taxi, mentre i vagoni delle metro sono ancor più pieni del solito, non solo di persone ma anche di bagagli, o spesso fagotti, di ogni forma e dimensione.
Un mix che rende particolarmente allettante, e de facto irresistibile, l’invito a varcare nuovamente i confini.

Dopo una prima settimana idilliaca, la mia seconda settimana è iniziata con una dannata nevralgia (di cui spero di liberarmi prima del mio viaggio into the wild), e con una telefonata,  puntuale alle ore 9 di lunedì mattina, da parte della stazione locale di polizia che, in perfetto inglese,  si è premurata di “remind you that your visa is expiring in two days”. 
E così è ricominciata la weekly marathon.
Day 3 into the week, e ho già all’attivo, oltre alle consuete giornate di lavoro, una seduta di yoga, una visita dal dentista, un’altra in ospedale, la  registrazione alla stazione di polizia per il nuovo visto, e una serie di faccenduole pratiche.  

Ma e’ iniziata anche – perche’ in Cina non si rimane comunque mai a corto di aneddotica curiosa – con una ‘caccia all’uomo’ che ha dell’inverosimile in un Paese in cui ci sono telecamere ad ogni angolo e in cui regna una sicurezza da “Regno dell’Utopia” di Thomas More o da “Isola che non c’e’” di Bennato. Eppure, da inizio Gennaio e’ ripartita una ricerca capillare per il ‘serial killer’ che, il 6 Gennaio scorso, ha rapinato il cliente di una banca a Nanchino, uccidendolo poi. Un colpo che l’assassino avrebbe compiuto gia’ altre sei volte, a partire dal 2004, in luoghi diversi della Cina. Continuando, incredibilmente, a farla franca.
E cosi’ da lunedi’ mattina mi sono anche trovata, sulla bacheca degli annunci di casa come anche tutt’attorno all’ufficio, poster pubblici con l’identikit dell’uomo, e relativa taglia (che continua a salire).  

"WANTED"
Bacheca del mio condominio.
© Silvia Sartori, Shanghai, Gennaio 2012.
Se i laowai lamentano una stanchezza costante e un invecchiamento precoce, per i cinesi il rapporto con la fatica è diverso. Per me, è come se loro avessero un gene in più, e diverso dal nostro. Resilience è il termine, e il talento, che per primo mi viene in mente quando penso a questo popolo, quando ripercorro quanto ha attraversato storicamente (anche solo negli ultimi 100 anni), quando osservo come affronta, con poche lamentele e tanta perseveranza e pragmatismo,  i suoi sacrifici quotidiani.
Chapeau. Un popolo per cui ho il massimo rispetto.
Perché resilience è più che pazienza, è più che forza di sopportazione, è più che resistenza. (E questo lo si vede benissimo nel confronto storico attuale tra la Cina e l’Occidente.)

I cinesi affrontano stanchezza e fatica con una marcia in piu’. Indubbiamente, “giocano in casa”. Perche’ loro, sin dal primo giorno in cui vengono al mondo, devono fare i conti con la legge dei grandi numeri. Pochi, meglio di loro, sanno davvero cosa significhi: la vida es una competición. Per cui, non e’ per un presunto “stakanovismo congenito” che devono sempre “study hard”, “work hard”, “do their best” (espressioni quasi onnipresenti in una conversazione con un cinese).  Altro che ‘la dolce vita’ o ‘enjoy life’. Di fatto, una autentica survival of the fittest.

Ed e’ comprensibile, allora, perche’ poi sognino di poter andare a vivere  – e molti di loro lo fanno - in Paesi come Singapore, l’Australia e il Canada o perche’ abbiano un’adorazione spasmodica per la Svizzera. Tutti Paesi comfortable, efficient, relatively underpopulated e green.

Paesi in cui, se ora come ora io dovessi andarci a vivere, credo potrei morire di noia.
Pero’, proprio qualche giorno fa, mi ha scritto una cara amica (italiana) che vive a Londra da un po’ di anni. Raccontandomi dei “punti forti” della capitale, ha constatato anche che potra’ rimanerci fino a quando avra’
le energie necessarie a sopravvivere in questa citta’”, perche’ Londra puo' veramente risucchiare tutte le tue energie”.
Cose simili mi raccontavano quanti hanno vissuto a New York e in parte le ho sperimentate anche quando vivevo a Tokyo.

Mi chiedo allora se sia questo il prezzo da pagare per vivere in citta’ dinamiche e stimolanti.  Se ci sia, somewhere out there, un’alternativa tra gli ‘ombelichi del mondo’ (Shanghai, Londra, New York, ecc.) e "le Svizzere" o "i Singapore" (con tutto il rispetto, comunque, per entrambi).  

Se qualcuno ne conoscesse qualcuna, please let me know.

(* come vengono definiti gli stranieri in Cina)
(累死 = lei4 si3, stanco morto)