II Parte
Non tornavo in Italia da ottobre, ovvero dieci mesi circa. Dieci mesi che mi sembravano un paio di settimane, se li misuravo sul metro del cambiamento dell’Italia in quel periodo. Dieci mesi che profumavano di un’eternità, invece, se ripercorrevo la mia vita asiatica in quello stesso frangente di tempo.
Essendo stato un viaggio dell’ultim’ora, organizzato d’un lampo, sono partita che mentalmente quasi non mi rendevo conto di stare rientrando in Italia. Sono arrivata senza troppi, soliti pensieri e domande sullo stato del Paese, sul cosa aspettarmi, sul cosa avrei e non avrei ritrovato. Avevo altro a cui pensare e dopo tutto era Ferragosto.
Invece, mi ha stupito come, questa volta, questi pensieri e queste domande mi siano stati rivolti, progressivamente, da quanti ho ritrovato a casa. Si sa, in Italia lamentarsi è uno sport nazionale che non conosce stagioni di riposo. Ma questa volta quello che m’ha accolto m’è parso più di un solito “allenamento sportivo”. Non m’era mai successo, nel giro di così poco tempo, e senza che fossi io a dare il là, di sentir così spesso espressioni quali: “declino totale”, “caduta libera”, “suicidio cosciente”, “siamo indubbiamente arrivati al giro di boa, ora però bisogna vedere se siamo capaci di farlo”, ecc.
Il caso più eloquente si è verificato quando ho risentito un artista che lavora nel cinema. L’avevo rivisto l’ultima volta nel 2009. L’aria già non lasciava promettere troppo bene ma lui si dichiarava ottimista e letteralmente “curioso”, affermando che: “I periodi di crisi sono sempre stati momenti artisticamente interessanti e molto creativi”. Questa volta, invece, dopo aver sentito la fotografia che fa dell’Italia attuale e di quella prossima ventura, ho messo giù la cornetta del telefono esattamente con la sensazione di aver parlato con qualcuno il cui Paese sarebbe entrato in guerra l’indomani.
In quelle giornate, ascoltavo tutto ciò e riflettevo su quanto fossi fortunata, grata e relieved per il fatto di possedere un biglietto di ritorno per la Cina di lì a pochi giorni. Esattamente così: fortunata, grata e relieved. Nulla di più, nulla di meno. Al contempo, una sensazione di pena per il mio Paese, perché contemporaneamente non potevo non tornare a constatare come la qualità e lo stile di vita italiani siano davvero unici al mondo, specialmente d’estate. Un Paese tanto bello e speciale quanto, per me, attualmente invivibile.
Più torno e più mi convinco che per poter godere davvero della qualità e dello stile di vita italiani servano soldi. E il problema non è tanto quanti soldi servano – la cifra, in sé, mi sembra assolutamente ragionevole – quanto il fatto che, tranne per determinati profili, rimanga utopico, nel Paese, riuscire ad avere dei contratti decenti con degli stipendi decenti. Non parlo di condizioni da crème de la crème ma di contratti che non siano co.co.pro. e con uno stipendio medio di 2,000-2,500 euro. Utopia per l’audience italiana, barzelletta per chi mi ascolta da altri Paesi dell’Unione, (senza per forza dover andare a sempre a rimbalzare al di là dell’Atlantico).
L’unica domanda nuova che m’è sorta questa volta è stata: “Ma cosa aspetta ancora la gente a reagire a tutto questo?”
M’è sembrato di trovarmi dentro il paese della Bella Addormentata nel momento in cui cala l’incantesimo generale. Tutto sembra assopito - che nella fattispecie non so se stia per rassegnato, sconfitto, abituato, annoiato o pigro.
Good night, and good luck?