R.I.P.


Monsignor Luxian (Aloysius) Jin, vescovo di Shanghai

Shanghai -- Si e’ spento sabato, a poco meno di due mesi dal suo novantasettesimo compleanno, Luxian (Aloysius) Jin, vescovo della diocesi di Shanghai. Ebbi il piacere di incontrarlo qualche anno fa e sin da subito ebbi l’impressione che si trattasse di una delle figure piu’ straordinarie incontrate nella mia vita cinese. Un’impressione che, a distanza di oltre sei anni, non e’ cambiata.

Non a caso, Monsignor Jin e’ ritenuto uno dei personaggi piu’ significativi e influenti della storia del cristianesimo cinese del XX secolo. Un personaggio influente ma anche molto controverso, una figura non semplice, come del resto non potrebbe che essere data la difficile storia del delicato, e tuttora molto fragile, rapporto tra Pechino e la Santa Sede.

Nato a Shanghai nel 1916, Luxian perse molto giovane entrambi i genitori e, a 18 anni, l’unica sorella. Esposto al cristianesimo sin da piccolo, abbraccio’ l’ordine gesuita e venne ordinato sacerdote nel 1945. Studio’ in Francia prima, e consegui’ poi un dottorato in teologia alla Pontificia Universita’ Gregoriana alla fine degli Anni Quaranta, mentre in Cina infuriava la guerra civile che avrebbe poi visto prevalere il movimento comunista di Mao Zedong. Preti e missionari stranieri venivano allontanati dal Paese e don Jin, preoccupato per le sorti della “sua Chiesa”, seppur consapevole di rischi e difficolta’ che lo avrebbero accolto in patria, fece richiesta di poter tornare in Cina. La richiesta venne accolta e nel 1951 torno’ a Shanghai, dove venne incaricato di dirigere il seminario di Sheshan, nei sobborghi della citta’. Il rimpatrio ‘pacifico’ non duro’ a lungo e a meta’ degli Anni Cinquanta don Jin venne imprigionato: l’inizio di quasi 30 anni trascorsi tra prigionia, isolamento, campi di lavoro e arresti domiciliari, ai quali dice di essere sopravvissuto recitando il rosario e ricordando i Vangeli, memorizzati da giovane. “Entrai in prigione da giovane uomo, e ne uscii anziano”, commento’ in un nota intervista rilasciata nel 2007 a The Atlantic .

Nel 1985, tre anni dopo il suo ritorno in liberta’, l’ “Associazione Patriottica Cattolica” (che presiede la “Chiesa cinese” dall’indomani dell’avvento comunista per garantire l’indipendenza dal Vaticano e la non interferenza da parte romana negli affari interni cinesi), gli propose l’ordinazione a vescovo. Una proposta difficile, alla quale alfine accetto’, seppur con riluttanza, convinto che sarebbe riuscito a fare di piu’ per la “sua Chiesa” tramite dialogo e “relazioni normali” con il Partito Comunista, piuttosto che ponendovisi in posizione antagonistica e di scontro aperto e dichiarato. Sono proprio questa decisione, e quest’approccio che ha poi segnato tutto il suo operato, all’origine di tanta controversia che aleggia attorno alla sua figura, accusata da Pechino di essere troppo vicina al Vaticano e, invece, di essere troppo vicina al PC dal Vaticano e dalla “chiesa sotterranea” (la chiesa cinese non riconosciuta dal Partito che professa fedelta’, assoluta ed esclusiva, alla Santa Sede e opposizione aperta a Pechino).

Districandosi con pragmatismo, cautela e costante attenzione tra questi due poli, il vescovo Jin ha dato prova effettiva di una sostanziosa rinascita del Cattolicesimo in Cina. Durante il suo mandato, le parrocchie di Shanghai sono passate da una dozzina circa a quasi centocinquanta, sono  moltiplicate le ordinazioni di sacerdoti come anche le attivita’ religiose nel Paese. Ma soprattutto a lui personalmente si devono due grandi conquiste della Chiesa in Cina: la celebrazione della messa in cinese (fino al 1989, il rito si svolgeva in latino, dato il divieto ingiunto da Pechino di seguire le indicazioni del Concilio Vaticano II) e l’inclusione, nel rito, di una preghiera per il Papa, due condizioni che Pechino aveva sempre respinto fortemente.

E’ stata, la sua, una vita vissuta e spesa nel tentativo di instaurare e mantenere un equilibrio, per quanto sottile e precario, tra la sua indiscussa fede cristiana e l’altrettanto forte identita’ cinese, nella necessita’ di sostenere la ‘missione cristiana’ senza rinnegare specificita’ e tratti culturali cinesi. Di questi suoi sforzi gli diede atto alfine anche la Santa Sede che de facto ne riconobbe la carica di vescovo a vent’anni circa dalla sua ordinazione. E, con una mossa che lasciava presagire un possibile riavvicinamento in tempi non molto lontani, nel 2005 Vaticano e Pechino si trovarono concordi nell’individuazione del suo successore nella figura di Wenzhi (Joseph) Xing. Nel 2012, pero’, il vescovo Xing rifiuto’ l’incarico, per ragioni tuttora non del tutto chiare e allora, nuovamente di comune accordo, la scelta ricadde su Daqin (Taddeus) Ma.
I colpi di scena pero’ non erano destinati a terminare e, non appena ordinato vescovo ausiliario, Ma annuncio’ la sua intenzione di ritirarsi dall’Associazione Cattolica Patriottica. Uno smacco inaccettabile per Pechino che da allora lo trattiene agli arresti domiciliari nel seminario di Sheshan, dopo averlo privato del titolo conferitogli poco prima.

In un susseguirsi di informazioni tanto difficilmente accessibili quanto vaghe, e’ da poco trapelata la notizia che, quando ormai si faceva chiara le dipartita imminente di Monsignor Jin, Taddeus Ma e’ stato prelevato da Sheshan; sarebbe stato portato a Pechino “per motivi di studio”, secondo AsiaNews, portale del Pontificio Istituto Missioni Estere che in Cina è tuttora oscurato.

I giorni di Aloysius Jin non si concludono, dunque, con una forse sperata normalizzazione dei rappporti tra Vaticano e Santa Sede. Rimane fitto il mistero sulle sorti della successione alla guida della diocesi di Shanghai, nonche’, ancor piu’ nell’immediato, sui dettagli dei suoi funerali. Una cerimonia commemorativa si e’ tenuta questa mattina nella “sua” cattedrale di Xujiahui a Shanghai, a cui hanno partecipato un migliaio di fedeli ma a cui non ha presenziato nessuna autorità di Pechino.

La notizia della sua scomparsa, di cui non c’è praticamente traccia nella stampa locale, mi ha riportato alla memoria la statura umana, possente e semplice al contempo, di quest’uomo di fede. Credente o meno che fossi, non potevi non cogliere l’integrità, la perseveranza, la pazienza e il sacrificio che ne trapelavano. Ricordo particolarmente come, incontrando un gruppetto di noi italiani, insistesse a scusarsi per il suo italiano, che riteneva mediocre, lui che era fluente in almeno cinque lingue e che a Roma non era piu’ potuto tornare per divieto governativo. Il suo italiano era tutt’altro che scadente (magari il mio cinese fosse così!) ma lui continuava a scusarsi, con quel candore umile che sembrano saper possedere solo i veri giganti.